Se ami il mare, la poesia, la forza, la bontà, il prossimo, la cultura della tua terra amerai poesie di Mario Scaglia, in arte, Claodin do Giabbe. Questo singolare poeta di Savona, fu scrittore vernacolare appassionato della cultura, delle tradizioni savonesi e liguri.
E’ stato un grande uomo prima di tutto ed artista osservatore, intelligente narratore, della sua gente. Sono affascinata dall’amore, dalla struggente passione che egli aveva per ogni particolare di Savona; Mario Scaglia/Claodin, sapeva dipingere nei suoi versi (talvolta con fermezza, talvolta con tremulanti abbracci, talvolta con ironici rimproveri) colori e sfumature con sonorità del tutto unici.
A 10 anni dalla sua morte (Savona, 19 marzo 1931 – 27 luglio 2006) è onore e gioia pubblicare alcune sue poesie assieme alla storia della sua vita testimoniata da Francesco Scaglia, suo figlio.
Claodin Dö Giabbe – A Mae Taera
E schêuggi, e mâ e çe,
e gente drûa, silenziösa e dûa,
e barche, e rei,
e pâmati, e tremagi,
e câ gianche,
e erbi d’ouiva,
e vento,
che da levante
e da ponente infûria,
ö mae Ligûria!
Scaglia Mario – La Mia Terra
E scogli, e mare, e cielo,
e gente rude, silenziosa e dura,
e barche, e reti,
e palamiti e tramagli,
e case bianche,
ed alberi d’olivo,
e vento,
che da levante
e da ponente infuria,
o mia Liguria!
Francesco Scaglia: “Se non fosse che chi me l’ha chiesto è una amica a cui non sono capace di dire di no probabilmente non l’avrei fatto. Perche’ scrivere del proprio padre, Mario, in maniera obiettiva è come essere obiettivi quando si parla di se stessi, praticamente impossibile.
Non puoi parlare di lui senza ricordare quando ti portava a fare il giro in vespa, in strade ancora da completare, o a prendere la spuma alla bocciofila, o quando andavi con lui nel suo lettone e cominciava ad intristirti con i suoi discorsi sull’essere il bastone della sua vecchiaia, o quando portava il cocomero – l’anguria – a casa ed era festa come avesse portato i dolci più buoni del mondo.
Eravamo una famiglia modesta e mio padre aveva un sacco di difetti. Il più grosso era quello che per tirare avanti la baracca, oltre alle otto ore dell’officina del gas andava a servire a tavola al ristorante di Corso Colombo. Così mio padre non lo vedevo molto spesso, e quando lo vedevo passava il tempo tra raccolte di francobolli, libri di fantascienza e storia egizia, letture di storia e dialetto ligure e a scrivere in una lingua strana simile all’italiano ma con segni e punteggiature che non mi erano mai state insegnate a scuola.
Eravamo poveri perchè la guerra a mio padre aveva tolto quasi tutto, anche il suo di padre, massacrato di botte dalle ronde fasciste mentre tornava la sera a casa dalla sua latteria dove, a detta della gente che li ha conosciuti, “veniva fatto il più buon gelato di Savona”, e finito nella lista delle ronde perchè aveva partecipato agli scioperi del ’29. Così rimane solo con la madre, all’età di dodici anni, nel bel mezzo di una guerra che sembrava non dovesse finire mai, gli studi scolastici ancora da inventare, una gelateria dove la mamma continua a svolgere l’attività in via Boselli, nel centro della città.
Alla fine arriva la liberazione, finisce la guerra e la famiglia prova a riprendersi. Mario è un ragazzo che i fatti della guerra hanno cresciuto troppo in fretta e lo dimostrerà il suo carattere ribelle. Frequenta il Ginnasio presso il Collegio dei Padri Scolopi a Carcare con profondo interesse. Nonostante gli ottimi voti in tutte le materie, un giorno in uno scambio di opinioni troppo schietto con il suo insegnante Padre Cazzullo decide di chiudere il discorso tirandogli contro il calamaio: è già un segnale di un carattere focoso e istintivo che gli creerà spesso problemi nelle varie fasi della sua vita. Rimandato a settembre in tutte le materie con sette in condotta, non si presenterà agli esami di riparazione anche perchè nel frattempo la madre decide di cedere l’attività in latteria, ma la sera prima della firma dell’atto i locali vengono svuotati di ogni materiale, compresi i bellissimi e costosissimi lampadari di Murano, dagli stessi sedicenti compratori che fuggono lasciando i muri vuoti ed, ovviamente, l’atto d’acquisto in bianco.
Mario interrompe gli studi e si mette in cerca di lavoro, ma non ha molta fortuna: lavori precari, promesse non mantenute, speranze che diventano presto illusioni e fallimenti lo portano sempre più a tradurre la rabbia e i sogni su fogli di carta e nascono i suoi primi versi. Ma la vita comunque continua, trova un posto fisso all’officina del gas, incontra sua moglie Giuseppina, la sposa e dopo un anno nasce mia sorella Daniela.
Siamo nel 1957. Tra lavoro e famiglia ogni tanto trova il tempo per scrivere le sue poesie: timidamente inizia a leggere i suoi scritti ad amici e parenti, che lo incoraggiano a proseguire nella scrittura dei suoi versi, sia in italiano sia in dialetto savonese, che poco alla volta diventa la sua vera lingua poetica. Il 1964 è un anno fondamentale, anno di grandi emozioni contrastanti…tutto in un freddo gennaio…la vita, la mia nascita, e la morte, la perdita definitiva della madre, dopo solo una settimana dall’arrivo tanto atteso del maschietto di famiglia. Il Natale del 1963 (la nonna era caduta quella notte andando a Messa, e non si era più ripresa) diventa l’ultimo Natale, e il momento dei ricordi di bambino che si infrangono nel mondo degli adulti, e si ritrova a scrivere frasi come “O madre, o madre, sono solo. In cielo sei andata…” (Natale de vei, Natale d’ancheu” – scritta nel 1973), “..è stato l’ultimo giorno di Natale che hai passato con noi e al ventitrè te ne sei andata via…” (“Natali de vei – Regordo o 1963” scritta nel 1980). Mario lavora sodo ma ha già scritto alcune delle sue poesie più belle in dialetto savonese: O mae ma, breve scorcio di mar ligure nella sonorità dei termini dialettali marinareschi, A mae taera, un acquarello in versi che si sviluppa con pennellate di luce su angoli della liguria. Entra come socio nell’associazione culturale “A campanassa”, partecipa ad alcune rassegne di poesia e si classifica terzo assoluto nel 1975 al premio “Laurus” di Stresa, negli stessi anni ottiene riconoscimenti e piazzamenti d’onore anche nelle gare di poesia organizzate dalla “A Campanassa”, associazione che pero’ lascerà per un’altro dei suoi diverbi focosi.
La svolta pero’ avviene a fine 1976. Un amico, per caso lo invita a duettare in diretta ai microfoni di Radio Savona Sound: leggono poesie di autori savonesi celebri e anche qualche sua poesia utilizzando il nome d’arte Claodin do Giabbe. L’esordio è un trionfo e i ragazzi di Radio Savona Sound confermano ai due uno spazio domenicale dalle 11 alle 13. Alla seconda puntata Claodin aspetta invano che arrivi l’amico Lu, che nel frattempo si è ammalato, e trasmette da solo ma grazie a Lu il fortunato programma ha inizio e continuerà ad andare in onda fino alla fine degli anni ’90, quando Claodin ormai in pensione, indebolito da problemi sempre più seri di salute si ritira in casa a passare i suoi ultimi anni, continuando però a scrivere nel suo amato vernacolo.

«Con ti, se ne va n’epoca, forse ciû povia de quella che vivemmo […]
l’epoca che se ti parlâvi in dialetto te capivan »
(Mario Scaglia, A-a vegia çiminea, 1975)
Nel torrido calore deI 27 luglio del 2006, decide di raggiungere la “fioria cianua” di una sua poesia per godere un po’ del fresco e della pace eterna di quei luoghi.
Nei due decenni a partire dal 1976 Mario-Claodin si prodiga in miriadi di attività: la sua trasmissione si amplia, oltre alla domenica dove l’appuntamento fisso è con “l’antologia di Claodin” si aprono due inserti serali il martedi e il giovedi sera, e tutte le mattine alle otto allo scalpicciare di una carrozza la sua voce raccontava i fatti della giornata agli ascoltatori di Radio Savona Sound con “l’almanacco del giorno“. E’ vulcanico, organizza serate presso i luoghi di ritrovo più popolari come le società di mutuo soccorso, le parrocchie, le associazioni no profit e culturali, organizza giochi radiofonici, indice gare di poesia, pubblica libri ed almanacchi, scrive periodicamente sul quotidiano “Il secolo XIX” un editoriale dove, in dialetto savonese, riporta alla luce luoghi e modi di dire, personaggi di Savona e semplici cittadini di un tempo, macchiette di quartiere ormai scomparse ma rimaste vive nella mente delle persone. In tutto questo continua fino al momento del pensionamento il suo lavoro all’officina del gas e tutta l’attività viene svolta in modo gratuito, per passione, per l’amore del suo dialetto e della sua terra, coprendo i costi che vengono sostenuti per la stampa dei libri suoi e delle antologie dialettali o del disco inciso con la collaborazione artistica di Ivano Nicolini grazie ad alcune sponsorizzazioni locali, che pero’ talvolta compensava con percentuali dello stipendio non essendo sufficienti a raggiungere il budget necessario.
Nella realizzazione di questo forse involontario progetto locale Claodin riesce a risvegliare un sentimento di amore verso la cultura popolare nella gente, svolgendo al contempo in questo un’operazione di socializzazione che fino a quei tempi era praticamente sconosciuta, richiamando intorno a se’ gente comune, poeti, artisti, musicisti, cantanti, squadre di canto popolari, corali alpine… Socializzazione che era effetto delle radio locali che aprivano a gruppi sempre più ampi di persone le possibilità di confronto e di una libertà che a trent’anni dalla fine della guerra iniziava a fasri maggior spazio in mezzo ad un’ancora assillante censura e modalità di gestione della cultura chiusa secondo canoni restrittivi e moralistici.
L’uso del dialetto gli permette di superare alcuni dei limiti imposti, dove nell’essere voce del popolo gli è concesso di esprimere mugugni e sentimenti che altrimenti non possono trovare sfogo. Nel fare questo, il suo costante riferimento è Beppin Da Cà, Giuseppe Cava, e nell’eterna diatriba relativa all’utilizzo di una grafia ligure lui sposa il modo di scrivere il dialetto che era dei genovesi di fine ‘800 e di Giuseppe Cava. Utilizzerà sempre questa grafia fino all’ultimo, pur dicendo che per lui “non è importante come lo si scrive, ma scriverlo e ancor di più parlarlo”. Ma posso assicurarvi che lui lo ha parlato ed ancor più lo ha scritto… e come potevo a questo punto, trovandomi con migliaia di “scartoffie” scritte a mano o a macchina, piene di personaggi, di modi di dire, di parole disuete, in una lingua quasi arcaica, con poesie così struggenti… come potevo ignorare tutto questo? “
www.claodin.it
Claodin Dö Giabbe – Ö Mae Mâ
S’arsa, s’arröbatta, se rinfranze,
cöre lesto sciû, verso da spiaggia
e za de nêuvo ö törna a spûmezzâ,
arsandöse e abbassandose,
ö mae mâ.
Oua l’é verde, grossö, tömöltöso,
s’infranze in sce l’aenn-a con violensa,
se sente sordo o sêu romörezzâ
lazû in sce-i schêuggi,
ö mae mâ.
Oua o l’é limpido e azzûrro,
con fresche brixe che gh’increspan l’aegöa,
de remme ûn lento, lento sciabordâ,
e veie gianche filanti a l’orizzönte
ö mae mâ.
E gemme argentee, fregogge d’ûniverso,
e a lûnna a se respegia sbarassinn-a
mentre o gh’é e barche che van a-a lampâ
bonn-a pesca figgiêu
in sce-ö mae mâ.
Scaglia Mario – Il mio mare
S’alza, si inciampa, si infrange,
corre veloce su verso la spiagga
e già di nuovo torna a spumeggiare
alzandosi e abbassandosi
il mio mare.
Ora è verde, grosso, tumultuoso,
si infrange sulla rena con violenza,
si sente sordo il suo rumoreggiare
laggiù sugli scogli,
il mio mare.
Ora è limpido e azzurro
con fresche brezze che gli increspano l’acqua,
di remi un lento, lento sciabordio,
e vele bianche filanti all’orizzonte
il mio mare.
E gemme argentee, briciole d’universo,
e la luna si rispecchia sbarazzina
mentre le barche vanno alla lampara
buona pesca, figlioli,
sul mio mare.
Claödin dö Giabbe – A-o vegio flautista
De votte, passandö da Via Piave,
sentö ûn scigöelâ che o me reciamma,
in te l’ostaia lì da-a ferrövia,
ûn pöstö a-a bönn-a, cöscì,
senza preteise,
ûn föndegö de Sann-a
de quelli de ‘na votta.
Ti trêuvi facce
che pôan scörpie in tö legnö,
de gente senza tempo, quaexi antiga.
O gh’è ö pittö, o vegio caafattö,
gh’è l’ortolan, o bottâ,
gh’è ö vegiö penscionou
che ö l’ha sciûsciou bottigge
pe’ ‘na vitta,
gh’è ‘na lavea,
che a se ne sciorbe ûn quartö,
gh’è ö massacan, ö spegassin,
ö pescou, ö battilamma, ö savattin,
gh’è quaexi tûtta a stoia
de Sann-a de ‘na votta,
de facce e gente
che poan quaexi fantasmi,
e ‘n sêunno döçe
se sente in söttöföndö
l’è ûn flauto
che lento ö se fâ stradda
tra ö fûmmö de sigâri,
tra l’aodö dö vin,
sön vegie aiette, sön vegie melodie
sciortie da ûn flaöto doçe
sciûsciae da ûn vegio
che ormai ö l’è fêua dö tempo
Mario Scaglia – Al vecchio flautista
A volte, passando da via Piave,
sento un fischiettio che mi richiama
nell’osteria li dalla ferrovia
un posto alla buona, cosi’,
senza pretese,
un fondaco di Savona
di quelli di una volta.
Ci trovi facce
che sembrano scolpite nel legno
di gente senza tempo, quasi antica.
C’e’ il pittore, il vecchio calafato,
c’e’ l’ortolano, il bottaio,
c’e’ il vecchio pensionato
che ha soffiato bottiglie
per una vita
c’è una lavandaia
che se ne beve un quarto,
c’e’ il muratore, l’imbianchino,
il pescatore, il fabbro, il ciabattino,
c’e’ quasi tutta la storia
della Savona di una volta
di facce e gente
che sembrano quasi fantasmi,
e un suono dolce
si sente in sottofondo
è un flauto
che lento si fa stradda
tra il fumo dei sigari,
tra l’odore del vino,
sono vecchie ariette, sono vecchie melodie
uscite da un flauto dolce
soffiate da un vecchio
che ormai è fuori dal tempo.
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